Prossimo passo: estendere i servizi ai componenti della famiglia

Antonello Calderaro

Perché è necessario estendere i servizi del Centro Lavoro Sereno ai componenti della famiglia delle persone in disagio lavorativo ?
La risposta nella relazione di Antonello Calderaro, psicologo, al convegno “Risposte al disagio lavorativo”.

“Salve a tutti.
Visto il cenno dell’Assessora Funaro al ruolo della donna, tengo a dire che nella nostra associazione siamo all’avanguardia perché i ruoli di coordinamento sono tutti al femminile ed è un nostro vanto.


Antonello

Oggi mi spetta il compito di parlare degli sviluppi dell’attività dell’associazione.  E’ una cosa che mi rende orgoglioso e vi ringrazio di darmi questa possibilità.

Cambia il disagio lavorativo e occorre far fronte a più complesse implicazioni sociali e familiari

Dico subito che la necessità di ampliare i nostri servizi nasce da un concreto bisogno, da un concreto bisogno metodologico. Il metodo andava cambiato perché è cambiato il disagio lavorativo, è cambiato il mobbing.
Da cosa dipende questo ?  E’ giusto che si sappia.
Dieci anni fa, quando siamo entrati nell’associazione, io e gli altri colleghi eravamo più giovani e più inesperti.

Dieci anni di esperienza sul campo ci hanno fatto crescere come professionisti e ora siamo in grado (e, permettetemi di dirlo, siamo anche bravi) di capire il disagio lavorativo nella sua chiave sociale.

Il disagio lavorativo è un fenomeno sociale, la società cambia e cambia anche il tipo di disagio. E noi lo leggiamo anche in una chiave importante che è quella territoriale. 

Nel corso degli anni, e soprattutto negli ultimi due anni, abbiamo visto che i nostri interventi tendevano a considerare e a includere sempre più le famiglie delle persone che vivono condizioni di disagio tali che arrivano a rivolgersi al nostro centro.

Effetti nefasti sulle relazioni in famiglia

Questo perché il mobbing è un fenomeno relazionale e ha effetti nefasti sulle relazioni. I primi effetti nefasti sono nel nucleo famigliare.
E’ una cosa a cui abbiamo pensato molto e  ci ha indotto a ragionare sulla necessità di un percorso completo che riguardi anche, appunto, la famiglia.

I numeri che ha riferito Marika Calcini nella sua relazione sono numeri in crescita. In più, dietro alla persona che viene al nostro Centro c’è, in genere, anche una famiglia. Quindi questi numeri andrebbero moltiplicati.



Vi porto un esempio concreto, perché gli esempi concreti sono quelli che fanno capire meglio una situazione che, forse, non è molto tipica ma ricorre con una certa frequenza.
Viene al nostro centro una persona che vive una condizione disumana, ripeto disumana, nel contesto di lavoro: disumana dal punto di vista fisico, morale, anche monetario, che però fa parte di una famiglia monoreddito. Quindi si trova impossibilitato a lasciare il lavoro.
Ecco, capite bene che ci prendiamo un onere non indifferente e che, dunque, soprattutto in questo caso va avviato un intervento molto mirato.
Non si può dire “lascia il lavoro“. Va fatto un percorso completo che può essere anche di riprogettazione della presenza sul mercato del lavoro e di assistenza completa e non solo alla  persona singola ma anche ad uno o più componenti della sua famiglia.

In realtà le famiglie sono state sempre presenti: i familiari che sono madri, padri, fratelli, partner, sono quelli che spesso danno il nostro numero al proprio caro o che chiamano direttamente il nostro centralino, lo accompagnano al centro o, addirittura, entrano anche loro nel centro con il proprio caro perché vivono, sentono  la sofferenza forte del proprio famigliare che non ce la fa più, e non ce la fanno più neanche loro.

Va ricordato che, dal punto di vista del metodo, avere un familiare vicino, che sostiene il percorso, aumenta l’efficacia del metodo stesso.
Ad esempio, un percorso di supporto psicologico risulta molto migliore se nelle famiglie abbiamo un complice.
Ciò che va ricordato è che anche il familiare è una vittima, anch’egli o anche lei, è una persona che soffre.

Per quanto ho potuto constatare nel corso della mia esperienza, del mobbing e del disagio lavorativo tra le mura domestiche o non se ne parla, vuoi per orgoglio, per paura o per non fare preoccupare il proprio caro, oppure se ne parla di continuo e tutta la famiglia è assorbita da questa dimensione.

In entrambi i casi ciò che non cambia è il tono depressivo generale, quella cappa persistente di malessere che aleggia su tutta la famiglia, il senso di impotenza e di impossibilità a uscire da quella situazione.


Prossimo passo: sviluppare i servizi per i componenti della famiglia

Per questo abbiamo come obiettivo di sviluppare, già a partire da quest’anno, servizi che comprendano tutta la famiglia.

Stiamo aspettando i risultati di un bando che ci potrà aiutare in questa direzione.
Non mi soffermo sulla componente tecnica ma, in sintesi, posso dirvi che prevediamo che dalla prima telefonata a tutto il resto del percorso sia contemplata la dimensione familiare: dai gruppi di autoaiuto per i famigliari alle attività di riqualificazione lavorativa.

Mi soffermo su una cosa ma sarò veloce.
Noi pensiamo che non si possa fare altrimenti. Ve lo dico in un’ottica forse un po’ cinica ma pensiamo che se noi lavoreremo sull’intero nucleo familiare, ci guadagnerà anche l’economia della società perché la famiglia diventerà una spesa di minor peso sul welfare.
E’ un impegno veramente importante perché implica più operatori, più risorse, più tempo, in generale più cuore di quello che già mettiamo.

Implica difficoltà anche organizzative, dato che quest’anno i numeri saranno molto più alti di quelli del 2018.


Chiediamo il vostro aiuto

Quello che vi chiedo è quindi aiuto.
Anzi, non un semplice aiuto: vi chiedo quello che si chiede nelle famiglie quando si è in difficoltà.

Vi chiedo complicità, vi chiedo coinvolgimento, vicinanza. Come la potete dare? Datela moralmente, datela in maniera istituzionale, chi può.

Vi chiedo di cambiare prospettiva. Molto spesso nei convegni si dice “E se il mobbing capitasse a me, a me personalmente?”

Ecco io vi chiedo di cominciare a pensare anche: “E se capitasse a mio padre, a mio fratello, a mio figlio?”
Ora quest’ottica fa male, forse, ed è anche difficile perché non pensiamo che certe cose possano accadere a noi,  figurarsi a un proprio caro, ma forse ci stimola, ci fa muovere e di sicuro ci arricchisce.

E lo dico personalmente perché è proprio ciò che mi ha insegnato Gli Amici di Daniele, o meglio, la storia, che tutti conosciamo, dell’associazione Gli Amici di Daniele.
Grazie a tutti.”

 

Testo a cura di Nunzia Pandoli

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