Disagio lavorativo e disturbi cognitivi: gli studi sui danni alle strutture cerebrali

I disturbi cognitivi (quali i danni alla capacità mnemonica, per esempio) sono patologie frequenti tra le persone che subiscono condizioni di grave disagio sul lavoro. I risultati degli studi in corso sono stati sintetizzati dal Dott. Giovanni Nolfe, responsabile del centro di riferimento per le psicopatologie da mobbing della Regione Campania, nella sua relazione al convegno del 17 marzo scorso a Firenze.

 
Indagini sui disturbi cognitivi

Vi dicevo dei disturbi cognitivi.
Noi abbiamo cercato di vedere cosa succede a livello di struttura cerebrale nei nostri pazienti.

Quindi abbiamo fatto delle indagini utilizzando la risonanza magnetica e abbiamo osservato che, nei pazienti che sono sottoposti a situazioni di mobbing, gli ippocampi, tanto quello di destra che di sinistra, sono atrofici in maniera significativa rispetto ai lavoratori che non hanno subito questo tipo di fenomeno.

Non vorrei enfatizzare un rapporto causa-effetto troppo meccanico.

Tuttavia questo dato ci dice che il danno prodotto da questi fenomeni, il trauma che si produce a livello di struttura cerebrale, non è soltanto una nostra fantasia romantico-emozionale, ma ha a che fare con ciò che noi, ad oggi, possiamo evidenziare sulla struttura cerebrale stessa.


 

 

 

 

 

 

Questa atrofia degli ippocampi si correla soprattutto al mobbing, quando cioè il lavoro diventa dannoso sul singolo individuo, quando l’accanimento si esercita in modo mirato sul singolo individuo.

Il mobbing è qualcosa che colpisce il singolo lavoratore o un piccolissimo gruppo di lavoratori mentre lo stress lavoro-correlato è l’esposizione alla condizione di disagio che riguarda un po’ tutto l’ambiente di lavoro.
Quanto più il fenomeno colpisce il singolo, tanto più marcato è il danno cerebrale del soggetto.

Sarà da valutare poi, con nuovi studi, se e quanto possa essere reversibile o non sia affatto reversibile.
In questo stesso studio, abbiamo osservato che anche alcune aree cerebrali vengono coinvolte da questo tipo di atrofia.

Sono le aree 18, 19, 20, cioè soprattutto quelle collegate alla funzione della memoria.  

Infatti, quando parliamo con i nostri pazienti, una delle difficoltà che osserviamo è la difficoltà a concentrarsi, la difficoltà a ricordare, la difficoltà a mantenere l’attenzione: come se la macchina psichica stessa cessasse di funzionare.
La macchina cessa di funzionare soprattutto in una situazione ostile, in una situazione dove il paziente avverte un pericolo.
Egli sente il bisogno di funzionare ad alta prestazione ma sente che, al contrario, il suo psichismo funziona su una bassa prestazione.

Confronto con studi internazionali e conferme

Questi nostri studi confermano altri studi.

Questa diapositiva è relativa allo studio di un gruppo svedese che vedeva lo stesso tipo di atrofia a livello delle amigdale.
Si tratta, quindi, sempre di strutture collegate all’aspetto emozionale della memoria.

E questi ultimi studi confermano anche studi che avevamo fatto qualche anno fa col gruppo di Mario Maj, a Napoli, quando avevamo evidenziato l’esaurimento funzionale dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nelle persone sottoposte a mobbing.  

 

 

Asse ipotalamo-Ipofisi-Surrene che ha costituito un classico correlato biologico connesso allo stress.

 

 

 

E poi c’è questo importante studio svedese, confermato anche negli Stati Uniti da Andel, che ci dice che l’esposizione prolungata a condizioni di stress e di vessazione lavorativa espone a un rischio maggiore di patologia dementigena negli anni successivi, di tipo atrofico o di tipo vascolare. 

Tutto questo non per gettare lo scoramento nella sala, ma per sottolineare come il lavoro è una variabile fondamentale per la nostra salute, non è una variabile accessoria, è un elemento di fondo.

Il mobbing fotografato nella sua essenza

Se io dovessi descrivere che cos’è il mobbing mostrerei questa foto.
E’ una postazione di lavoro, uno scatolone con il buco dove poter mettere i piedi e i dispositivi di lavoro.
E’ la postazione di un magazziniere.

Qua la frittata è fatta.
Qua era intervenuta anche la giustizia: il magazziniere era stato ricollocato nel proprio lavoro dal Giudice del Lavoro.  
La questione giudiziaria, la causa legale, è fondamentale, ma non è l’unica soluzione.

Questo lavoratore ha vinto la causa, è stato ricollocato in servizio ed è stato messo in un posto periferico dall’azienda, in questa situazione di umiliazione.
Questa è la Siberia, la sua Siberia.

Questo ci spinge a pensare che c’è tanto da combattere per le leggi, ma soprattutto occorre combattere per la cultura del lavoro, del lavoro etico, del lavoro giusto.

Un po’ come diceva Milosz in quella poesia, non riferita al lavoro ma riferita in generale alla società: dobbiamo combattere perché quello che appare ineluttabile, quello che è “così perché deve andare così”, perché il mondo “è fatto così”, non rimanga più come è oggi, almeno nelle nostre menti.


Disagio lavorativo e suicidi

Questi sono gli studi australiani sulla percentuale di suicidi.
Sono relativi alle morti sul lavoro in un certo intervallo di tempo nello Stato di Vittoria e rilevano come il 45% di suicidi siano collegati alla situazione di disagio lavorativo, emozionale, organizzativo, di vessazione, di costrittività. 

Questo è uno studio che non riguarda il lavoro in senso stretto ma ci dice che l’isolamento costituisce un grande fattore di rischio per la mortalità stessa.


Per questo dobbiamo assolutamente promuovere la diffusione di strutture come gli sportelli che entrino in contatto con le persone.

 

Il lavoro malato, in generale, l’isolamento sociale, la solitudine relazione, costituisce un fattore di rischio-morte sovrapponibile al tabagismo e al sovrappeso.

Oggi noi sentiamo spesso dire “stai attento a non fumare, stai attento a mangiar bene”, poco sentiamo “stai attento, lavora bene”.

 


E questo spiega perché la Comunità Europea abbia inserito la salute mentale nei luoghi di lavoro tra i 5 obiettivi principali del Patto Europeo di Lisbona sulla salute.

 

 

 

 

Fine 3a parte della relazione del Dott. Giovanni Nolfe

Testo a cura di Nunzia Pandoli

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